Ci sarebbe da scrivere libri, qualcuno di sicuro l’ha fatto, ma in questo post ci soffermiamo su un paio di punti con i quali mi sono scontrata negli ultimi e anni e che, tutt’ora, mi portano a dibattere con cosmetologi e imprenditori. Pensare a vendere al consumatore a tutti i costi o dare al consumatore informazioni giuste e oneste?
Il primo tra tutti i claim in questione è il coniglietto saltellante – leaping bunny – che attesta che un cosmetico non è testato su animali. Ci sono stati anni in cui tutti rincorrevano questo simbolo in preda ai vari veganesimi e filoni animalisti, come giusto che sia, ed era l’unico modo per classificare le aziende come cruelty free o meno. Successivamente, l’11 marzo 2013, è entrato in vigore, in tutti i Paesi dell’Unione Europea, il divieto assoluto di vendere o importare prodotti e ingredienti cosmetici testati sugli animali, come previsto dal Regolamento Europeo 1223/2009. E con questo dovremmo essere tutti tranquilli, con buona pace del mondo animale e degli animalisti, avendo la (quasi) certezza che tutto ciò he troviamo sugli scaffali non può mai essere un prodotto/brand che sfrutta gli animali per i test di efficacia e per questo i loghi correlati al mondo cruelty free non hanno più modo di esistere, almeno in Europa, e per questo è stato bandito l’utilizzo di queste indicazioni sulle etichette dei prodotti.
Esiste infatti un punto contenuto nel REGOLAMENTO (UE) N. 655/2013 del 10 luglio 2013, il quale stabilisce criteri comuni per la giustificazione delle dichiarazioni utilizzate in relazione ai prodotti cosmetici. In questo testo è presente l’allegato 1 che recita cosi:
1) Non sono ammesse le dichiarazioni che indicano che il prodotto è stato autorizzato o approvato da un’autorità competente all’interno dell’Unione.
2) Una dichiarazione è considerata accettabile in base al modo in cui il prodotto cosmetico viene percepito dall’utilizzatore finale medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto dei fattori sociali, culturali e linguistici del mercato in questione.
3) Non sono consentite le dichiarazioni che suscitano l’impressione che un prodotto abbia uno specifico beneficio, se tale beneficio consiste nel semplice rispetto dei requisiti minimi di legge.
E su quest’ultimo punto 3) si apre un mondo, non solo sul cruelty free, ma su tutta un’altra serie di informazioni che vengono usate e che potremmo definire i “claim dell’ovvio“.
Se stiamo acquistando un prodotto di un brand italiano, nel nostro caso, con un packaging tutto in italiano (il che ci fa pensare che non possa di certo essere prodotto per la rivendita negli Emirati Arabi) e ritroviamo il claim Cruelty Free, il leaping bunny o una scritta con “NON TESTATO SUGLI ANIMALI”, di sicuro l’ufficio marketing non sta dando priorità all’onestà e al rispetto delle regole, ma intende venderti un prodotto sottolineandoti un qualcosa che è prassi e che, come sottolineato dalla legge sopracitata, è vietato dal regolamento UE.
Ad esempio, una signora che gira tra gli scaffali e ha a cuore il mondo animale si ritrova in mano 2 sieri viso: entrambi di marchi italiani e prodotti in Europa ma uno ha un mega coniglio stampato sulla confezione e l’altro no: quale acquisterà? Ovviamente quello col coniglio! Non è questa concorrenza sleale? Si penalizza così un’azienda competitor, con etichetta regolamentare, sottolineando qualcosa che tutti devono fare per legge vantandolo come plus unico e come un impegno maggiore rispetto agli altri. Al contrario, questo articolo, intende “educare” il consumatore ad andare oltre i simboli e i claim potendo fare una scelta di acquisto davvero consapevole, senza finire come vittime di un marketing al limite dell’illegalità.
Noi consumatori possiamo chiudere un occhio sulla questione “coniglietto” solo e soltanto quando acquistiamo un prodotto che nasce o viene distribuito in paesi in cui è concessa la sperimentazione animale (come Cina, Russia, Giappone, parte degli USA e del Brasile) e che portano questi simboli perché hanno effettivamente un plus rispetto a ciò che viene consentito, e quindi un impegno maggiore nel rispetto della specie animale.
Per fortuna i paesi del mondo che si sono adeguati agli standard europei sono moltissimi, ma resta il fatto che un brand cosmetico che importa, produce o distribuisce nell’Unione Europea non può né mettere sul mercato prodotti testati sugli animali né vantare di non testare su gli animali, in quanto, in caso contrario, non sarebbe autorizzato a vendere. Se per qualcuno questa informazione può sembrare quasi scontata, c’è chi fatica ancora a capire perché sottolineare che un prodotto non è testato sugli animali è FUORVIANTE. E la stessa legge lo indica! Di fatto, nel momento in cui un brand decidere di usare un claim che mostra qualcosa che è prassi non solo è ridondante ma propende a un atteggiamento quasi denigratorio nei confronti di una concorrenza più ligia alle regole che invece non sfrutta questi claim ormai vietati.
Di seguito i paesi del mondo che hanno vietato i test sugli animali (aggiornato a Ottobre 2023):
Dal regolamento di cui abbiamo parlato oggi si evincono anche molti altri claim e indicazioni che continuiamo a vedere sui packaging cosmetici e che ci inducono ad acquistare solo perché leggiamo informazioni sulle etichette che non sempre corrispondono alla realtà. È il caso anche di chi vanta particolari ingredienti che sono presenti nelle formule solo nelle cosiddette “quantità marketing”, ossia una percentuale tale da poter entrare nell’INCI, ma così bassa da non apportare alcun beneficio. Ma questo argomento richiede un approfondimento ulteriore. Se vi va di saperne di più sul marketing dei cosmetici e le strategie, ingannevoli, mette in pratica dalle case cosmetiche, lasciatemi un commento!